MARIA E AMY – STILI DIVERSI, DEMONI SIMILI

IL FRULLATO – IL LATO DELLA FRU a cura si Sara Fruner

CALLAS ASSOLUTA AMY

L’11 marzo scorso ha preso il via “Maria Callas – The Exhibition”, la mostra che omaggia la soprano greca presso l’AMO, l’Arena Museo Opera di Verona. La mostra rimarrà aperta fino al 18 settembre ― abbiamo tutto il tempo per farci un salto ― e propone inoltre delle visite guidate speciali in occasione delle grandi Opere Liriche all’Arena il 30 luglio, il 13 agosto, e il 25 agosto alle ore 17.00 ― per maggiori info, www.mostracallas.it.

La coincidenza che mi ha fatto notare l’evento, mi ha messo anche sulla strada di un documentario del 2007, “Callas Assoluta”, di Philippe Kohly, che ripercorre la vita della cantante, i suoi tanti dolori, i suoi pochi piaceri.

Guardandolo, non ho potuto fare a meno di tracciare una linea di congiunzione con un personaggio che le somiglia, le somiglia in maniera impressionante, sia in quello che ha rappresentato per i suoi fans, sia per il destino che la vita le ha riservato…

Ladies and Gentlemen, from Camden, London, the one and only, Miss Amy Winehouse E solo quando alla dea greca Maria si è sovrapposta quella inglese di Amy, mi sono accorta di quanto le due donne abbiano percorso tante strade parallele, prima fra tutte, quella di essere portatrici di un talento che toccava vette altissime. Quando il talento raggiunge quei livelli, entriamo nel mito, ma anche nel tragico: rapporti burrascosi con la famiglia d’origine, legami amorosi devastanti, fissazioni con il proprio corpo, la propria immagine e la propria arte. Mai magre o brave abbastanza ai loro occhi, né l’una né l’altra, ma sempre affamate di perfezione, sia l’una che l’altra, Amy e Maria sembrano due sorelle divise dal tempo, e che il proprio tempo sono riuscite a segnarlo con uno stile personalissimo.

Per capire chi fosse Amy e cosa abbia fatto, ma soprattutto come fosse, consiglio caldamente “Amy – The Girl Behind the Name”, il documentario di Anif Kapadia del 2014, che si è aggiudicato ― con sommo giubilo della qui presente ― l’Oscar 2016 come miglior documentario, il British Academy Film Awards, nonché tutt’una sfilza di altri riconoscimenti che confermano il valore di questo film a livello internazionale.

Kapadia era un caro amico di Amy, della Amy diciottenne che muoveva i primi passi nella musica, e che ha deciso di realizzare questo collage di profonda umanità per raccontare la Amy “behind the name”, dietro il nome ― lo scricciolo in balia di certi personaggi di dubbia fama e sicura infamia come il padre e il marito ― che non era mai stata raccontata prima. Sul palco abbiamo sempre visto la star e sentito quella voce, nera e celeste insieme. Non potevamo immaginare cosa si nascondesse “behind the name”, dietro quel nome: la sua ansia da perfezionismo, la sua perenne, insaziabile fame d’amore e di riconoscimento, e non tanto quello del suo pubblico o della critica, ma quello inscritto nel suo “destino freudiano” ― “I can’t help but demonstrate my Freudian fate”, scriveva e cantava, lucidissima.

Queste due donne, con quella voce furiosa dentro quei petti fragili, si distinsero anche per lo stile. Diverso ma unico come solo due spiriti in epoche diverse possono essere.

Dal 1952 fino alla sua ultime tournée nel 1973, Maria Callas rimase fedele a Biki, un’affermata sarta di Milano, a cui si affidò per tutti gli abiti della sua vita ― un sodalizio così duraturo, cementificato da un’amicizia tra cliente e committente, ci sembra merce rara in questo nostro tempo in cui le star amano svolazzare di stylist in stylist e in cui alcuni rapporti sbandierati sembrano più frutto di logiche pubblicitarie che di autentica stima reciproca. Quelli della Callas non erano gli abiti dallo stile minimal e dalle linee pulite e très-Coco preferiti da Audrey Hepburn ― attrice che tuttavia ammirava. Erano vestiti importanti, trionfali, quasi scenici: lunghi, ricchi, gonfi, oro e stole di pelliccia ― ci siamo capiti.

Amy, di contro, ha trovato un suo personalissimo equilibrio nell’approccio blending. Ha saputo infilare gli anni ’50 ― daisy dukes e gonne a vita alta, per non nominare la stranominata cofana in testa ― con cui sembrava onorare la musica con cui era cresciuta ― il soul e il black da Aretha Franklin in poi ― e al contempo aderiva a uno stile dark strizzandosi in quelle longuettes fino al ginocchio e camicine di pizzo o in rete, da cui traspariva l’intimo.

Il documentario “Amy” offre un’interessante carrellata anche dal punto di vista dell’evoluzione fisica ed estetica di Amy: dalla ragazzina paffutella con i maglioni larghi e un dichiarato problema di bulimia, alla pin-up Olivia Oil di fine anni ’90, ròsa dalla droga e dall’anoressia. Se lo struggimento usciva fuori potente nei suoi testi e nella sua musica, credo che i suoi outifit, così vari e apparentemente incoerenti, testimonino l’irrequietezza che le covava dentro.

Quindi, ricapitolando, abbiamo due occasioni per ricordare queste due artiste tanto eccelse quanto sventurate: “Maria Callas – The Exhibition” a Verona, e il dvd di “Amy” da acquistare, conservare e regalare, e non solo agli appassionati di musica.

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