IL FRULLATO – IL LATO DELLA FRU
a cura di Sara Fruner
Il calendario della 68° edizione del Festival Shakespeariano, all’interno dell’Estate Teatrale Veronese, ha previsto anche il Giulio Cesare del regista spagnolo Àlex Rigola, un adattamento che ha sorpreso molto pubblico e critica, per l’innovazione e l’inventiva con cui ha guardato al testo shakespeariano: Giulio Cesare nei panni di un’attrice, inserti d’immagini contemporanee tra cui il volto di Barak Obama davanti all’uccisione di Bin Laden… Insomma, tutto molto deranging se siete tipi da teatro verista.
Questo testo shakespeariano e i 400 anni dalla morte del Bardo, mi riportano alla mente cinematografica “Cesare deve morire”, capolavoro dei Fratelli Paolo e Vittorio Taviani, grazie al quale, nel 2012, tornarono a casa da Berlino con l’Orso d’Oro in valigia.
Per parlarne ― cercherò di parlarne poco anche se il film meriterebbe una tesi di dottorato ― dobbiamo rispolverare i vasi comunicanti, il principio secondo cui un liquido contenuto in contenitori diversi e comunicanti tra loro raggiunge lo stesso livello dando vita ad un’unica superficie equipotenziale. Lasciate perdere l’equipotenziale e tenete l’idea del liquido che passa da un contenitore all’altro, da una forma all’altra, e l’effetto di fusione che si determina, giacché questa è la sensazione dopo i 75 minuti del film: avere arte, vita, finzione, teatro, cinema, dramma, riscatto, condanna, tutti uniti e mescolati all’interno del film prima, e di voi stessi poi.
“Cesare deve morire” è una meta-meta-tragedia in cui i confini tra la finzione teatrale e la vita degli attori si (con)fondono per fissarsi attraverso la finzione cinematografica: il film inscena il “Giulio Cesare” di Shakespeare (tragedia di finzione) calando dei carcerati veri (realtà) nei panni dei personaggi da interpretare (finzione) all’interno del dramma penitenziario del carcere di Rebibbia (tragedia vera) utilizzando il mezzo del cinema (ancora finzione). E già questo dovrebbe bastarvi per capire la necessità dei vasi comunicanti…
Il film è fisico, potentemente fisico: vi arriva addosso in tutta la sua essenzialità scenica, e nella scelta felicemente estraniante del bianco-e-nero per le scene in cui i carcerati “provano” il dramma shakespeariano ― ovvero quasi tutto il film. In realtà i carcerati fanno più che “provare” il dramma. Lo vivono all’interno della prigione, che si fa teatro sia della tragedia di Shakespeare che della tragedia ― delle tragedie ― vissute dai singoli detenuti.
C’è di più. La stessa opera di Shakespeare diventa teatro in cui le vicissitudini dei singoli attori-carcerati trovano modo e spazio per esprimere i loro sensi di colpa, il loro bisogno di perdono. È come se i carcerati, attraverso la finzione, esternassero la propria disgrazia. Alcuni di loro sono “uomini d’onore” ― e questo riecheggia i romani d’onore che organizzano la congiura ai danni di Cesare nell’opera shakespeariana. Alcuni sono degli assassini ― e questo si sovrappone al dramma di Bruto. Tutti sono perseguitati dalla colpa, dalla reclusione.
Si entra e si esce in continuazione da vita, recitato, teatro, cinema, verità, finzione e tutto all’interno di uno spazio chiuso che contiene la più grande forma di dramma istituzionalizzato ― la prigione. Vasi comunicanti, per l’appunto, da cui non si esce nemmeno quando si esce dal film e dalla sala.
A casa con voi portate le facce scolpite di alcuni attori ― Bruto su tutti, alias Salvatore Striano. Portate il “fine pena mai”, che fa accapponare la pelle, con il coma irreversibile rinchiuso dentro quel “mai”…
Vi portate a casa Shakespeare, che davvero ha detto tutto 400 anni fa: attraverso penna e calamaio ha fatto scivolare ai posteri l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. E vi portate a casa immagini che rimangono, come l’angustia delle celle, la desolazione dei cortili ― il bianco-e-nero affila la lama del quotidiano squallore che uno spazio aperto all’interno di uno spazio ermeticamente chiuso può dare ― ed espressioni che rimangono ― “guardasoffitti siamo, noi carcerati” pensa un detenuto ad un certo punto.
E soprattutto, vi portate a casa un rinnovato attaccamento a questa cosa che si chiama libertà, che è tanto impalpabile quando c’è, quanto schiacciante quando manca.
Al ritiro dell’Orso d’Oro i Fratelli Taviani dichiararono: “Sinceramente non avremmo mai creduto di poter vivere alla nostra età un’esperienza così coinvolgente, che ci ha rivelato un’umanità dolente, da riscattare”.
Chissà se riusciremo mai a riscattarci, noi, umanità dolente…
Siamo grati ai fratelli Taviani per questa pregevole rilettura dell’opera shakespeariana, e siamo grati al Bardo, per quella sua parola immortale, al contempo classica e nuova, sempre pronta alle interpretazioni più estreme, alle mise-en-scène più azzardate.
E se mi chiedete cos’è Shakespeare, io vi rispondo puro stile: fuori dal tempo e dentro ogni tempo.