IL FRULLATO – IL LATO DELLA FRU a cura di Sara Fruner
“Questo è il film della Mostra”, ho commentato fra me e me, uscendo dalla proiezione per la stampa di “Nocturnal Animals”, il terzo giorno della Mostra del Cinema di Venezia. La mia sentenza poteva suonare presuntuosa, senz’altro affrettata: avevo altri giorni di proiezioni davanti a me, tanti film da vedere. Tuttavia, quando sei davanti a un lavoro come il secondo film di Tom Ford, non puoi rimanere indifferente. Ne sa qualcosa la Giuria della Mostra che gli ha conferito il suo Gran Premio, sette anni dopo “A Single Man”, a cui fu assegnato lo stesso riconoscimento.
Due film, due Leoni. Chi si ostina a considerare la “fissa” di Ford per il cinema come un semplice capriccio da stilista annoiato dalla moda, faccia i conti con questo risultato. Due film, due Leoni.
Di “Nocturnal Animals” t’incanta e sciocca la bruta bellezza, la lucida empatia, con cui Ford racconta i suoi personaggi e i fatti che li riguardano. Mette tanti argomenti sul tavolo, e ne mantiene il controllo dall’inizio alla fine: sopravvivere a un dolore (doppio in questo caso, figlia e moglie del protagonista); essere in lotta con i pregiudizi, ma rimanere schiavi dei propri stessi stereotipi; mantenersi fedeli alle proprie aspirazioni e riuscire a farcela nella vita.
Per riuscirci, si serve di due binari narrativi su cui fa scorrere questo meta-racconto ben architettato: c’è la storia di Susan, facoltosa gallerista d’arte rinchiusa nella gabbia dorata della sua vita apparentemente perfetta, e poi c’è la storia di Tony, il protagonista del romanzo Nocturnal Animals, che l’ex marito di Susan ha scritto e le cui bozze le manda da leggere.
Nel romanzo, Tony è un padre di famiglia che una notte, in viaggio con moglie e figlia, viene aggredito da tre balordi, nel bel mezzo del nowhere texano: gli portano via l’auto, rapiscono le due donne, e fanno loro quello che di più brutto si possa immaginare… Questo senz’altro è il core-topic del film, ma “Nocturnal Animals” non è solo il dramma di una famiglia finita nel posto sbagliato al momento sbagliato. A catturarti è il codice che Ford sceglie per raccontare questa storia di brutalità trascesa ― o forse sarebbe meglio dire accesa ― da una profonda bellezza formale. Il che non significa virtuosismo fine a se stesso ― com’era successo, a tratti, in “A Single Man”, se proprio dovessimo trovare una pecca a quell’opera prima. In questo caso si tratta della ricerca di una dimensione estetica che faccia da contraltare alla realtà orrida che gli esseri umani possono generare.
La scena d’apertura, potente e forse un filo sorrentiniana, ci spiazza e ci ipnotizza: una serie di donne obese che ballano, il corpo nudo ricoperto di cellulite, sfregiato da cicatrici. Scopriamo ben presto che si tratta di una performance artistica in corso alla galleria di Susan. Questa visione così grottesca, ai limiti dell’osceno ― immaginatevi delle majorette biotte biotte e molto molto sovrappeso, in modalità rallenti ― innesca un altrettanto potente contrasto con la vita perfetta della protagonista: villa e galleria nei quartieri alti, un cane palloncino di Jeff Koons in bella mostra accanto alla piscina, vernissages a destra e a manca e marito fascinosissimo ― ovviamente fedifrago, perché nulla è mai ciò che sembra, a Los Angeles specialmente…
Ma lo sguardo di Ford sa essere anche spietatamente ironico: non risparmia nessuno, specialmente dell’ambiente che assoceremmo a lui, quello del beauty business. È in grado di demolire, anche soltanto con un personaggio che vediamo in scena per una ventina di secondi ― una collega gallerista di Susan ― l’intero mondo dell’arte contemporanea.
Ford sa quello che fa. E ancora lascia stupiti che un uomo di moda sappia fare cinema così come lo fa lui. Ma non lo diciamo sull’onda di uno sciocco pregiudizio: è onesta incredulità nei confronti di un talento così versatile, semmai. Non è da tutti eccellere nella moda ed eccellere anche dietro la macchina da presa, due linguaggi artistici così diversi… Ford dà prova di saperli parlare entrambi.
E non è nemmeno solo questione di fotografia e senso estetico. La sceneggiatura è costruita ad arte: portare avanti una meta-narrazione come quella di “Nocturnal Animals” senza cadere in incongruenze richiede una profonda conoscenza del proprio materiale e dei meccanismi sottesi alla narrazione cinematografica. Ogni azione degli attori è diretta al millimetro ― e si vede ― l’enfasi è gestita in maniera attenta, ma anche ardita: la scena di violenza, per esempio, quella che segna il punto di non ritorno nella vita di Tony, avrebbe potuto essere ridotta, attenuata. Invece è temporalmente espansa: per trascinarci nell’incubo di quella notte e di questo marito, noi dobbiamo diventare quel marito.
Durante la conferenza stampa avrei voluto chiedere a Ford se tutta la bellezza a cui ricorre ― per bellezza mi riferisco anche, sineddoticamente, a un semplice divano di velluto vermiglio che torna, certo non a caso, sia nel romanzo scritto da Tony, che nella storia tra Tony e Susan ― se tutto questo bendiddio estetico sia un modo suo, tutto-fordiano, per articolare, e in qualche modo metabolizzare, la potenziale mostruosità umana. Come se il bello nel brutto, potesse, in qualche modo, rendere il brutto meno brutto, più sopportabile.
Mi piace pensare che abbia involontariamente risposto a questa domanda, dichiarando: “Style has to survive substance”. Lo stile deve sopravvivere alla materia.