IL FRULLATO – IL LATO DELLA FRU a cura di Sara Fruner
Uno dice “Festa del Cinema” e pensa solo al cinema. Invece l’edizione 2016 ha spalancato gli orizzonti e ha dato spazio ad altre forme artistiche, tra cui la letteratura, il teatro, l’architettura, la musica, ospitando nomi come Don DeLillo, David Mamet, Daniel Libeskind, Paolo Conte, Lorenzo Jovanotti. A dimostrazione che un evento che convoglia forze, sforzi, e fondi può anche allargare il focus, andare oltre il cinematografico e diventare trasversale nelle proposta culturale che offre. E forse si è capito, una volta per tutte, che Mostra del Cinema di Venezia e Festa del Cinema di Roma, sono due creature dissimili, che condividono un pezzo di strada — quella cinematografica — ma che puntano a destinazioni diverse. A Venezia si gareggia. A Roma si festeggia.
E la Festa non ha avuto paura di sfoggiare personaggi che sono pezzi da novanta del cinema contemporaneo, e questo anche grazie al Direttore Artistico Antonio Monda, un Leo Castelli dei giorni nostri, quanto ad abilità nell’attirare intorno a sé artisti americani — facendoli spostare dagli USA, operazione non da poco.
Attori come Tom Hanks, mattatore e sagoma, molto consapevole di esserlo. E poi Oliver Stone, il regista di Platoon che gira il biopic Snowden per rendere comprensibile la storia del genio informatico che nel 2013 rivelò pubblicamente dettagli di programmi di sorveglianza del governo USA e UK, fino ad allora tenuti segreti. Film necessario per capire fino a che punto la tutela della nostra privacy da parte delle forze di sicurezze governative ― non solo quelle americano-inglesi ― di fatto è la più grande menzogna a cui potremmo credere. Una vicenda, quella di Snowden, che Stone, in conferenza stampa, ha definito “kafkiana”, intrappolato com’era in un sistema che lo obbligava a fare ciò che non voleva fare. Il regista ha confessato che il pubblico americano non si è dimostrato così interessato al film come sperava. Forse perché il biopic è molto politico, molto critico, e ne escono malmesse tutte le istituzioni di sicurezza governativa, e tutte le ultime Amministrazioni ― Bush, Clinton, Obama. In Italia uscirà a dicembre, e spero sarà il vostro regalo di Natale.
Moonlight, di Barry Jenkins, è stato un bel contraccolpo emotivo: storia di un little “nigga” della periferia — ghetto vero e proprio — di Miami con un’infanzia da Telefono Azzurro — madre cocainomane, padre assente e uno spacciatore per mentore ― un’adolescenza da incubo ― smilzo, taciturno e gay, ovvero carne da macello per tutte le teste calde del quartiere e i bulli della scuola ― e una giovinezza irrimediabilmente segnata da infanzia e adolescenza.
Poi c’è stato l’immancabile melodrammone americano, Manchester-by-Sea, di Kenneth Lonnergan. Storia di Lee, un padre di famiglia a cui capitano le classiche cinquanta sfumature di nero. Lee perde tutto: figlie in un incendio, moglie dopo l’incendio, fratello d’infarto, e si ritrova a fare da tutore legale al nipote, Patrick, la cui madre, ex-alcolista, si è rifatta una vita in cui lui non è contemplato… Eppure il film è meno peggio di quanto appaia ― uso lacrimoso delle musiche a parte.
Quanto a The Birth of a Nation, di Nate Parker, è una specie di “12 anni schiavo” ma senza la profondità che McQueen aveva saputo dare alla sua storia di oppressione nera. Diciannovesimo secolo, piantagioni del Sud degli USA. Lo schiavo intelligente Nat Turner, dopo una vita di soprusi visti e subiti, decide di sollevarsi contro i padroni bianchi insieme a un gruppo di compagni. La fine, è tanto tragica quanto prevedibile. Peccato che il simbolo del Cristo nero che si immola per la causa ― con la figura del Giuda redento nel finale ― sia una lettura troppo facile, troppo scontata. Inoltre, vedere la brutalità con gli occhi è certo un modo immediato per impressionare il pubblico. Ma dato che il pubblico è iper-esposto a scene di violenza, mi chiedo se quello sia davvero il canale efficace per ficcare nelle teste degli spettatori ciò che e stato. Temo che i registi, oggi, debbano trovare altre vie.
E poi, e lo tengo per ultimo, il film della Festa. Se alla Mostra di Venezia il mio film era stato Nocturnal Animals, il film della Festa è stato senz’altro Sing Street di John Carney, una specie di formazione sentimentale-musicale del sedicenne Connor nella Dublino anni ’80.
Cosa si può arrivare a fare per conquistare la ragazza più intrigante della zona? Be’, per esempio fingere di avere una band. Questo è solo il pretesto per Connor, il punto di partenza, che gli permette di scoprire la sua strada verso la musica. Lo spettatore assiste alla formazione della band ― i Sing Street ― e della coscienza artistica del ragazzo. Accanto a questo, il suo tentativo di gestire l’innamoramento per la bella e sfuggente Raphina, musa, croce e delizia che Connor trasporrà nei suoi testi. Timido e geek all’inizio, sempre più consapevole della propria voglia di fare arte con la musica mano a mano che il film progredisce, insieme ai suoi look — dal nerd, al dark, al pop, al rock ― Connor ci mostra il suo percorso di crescita personale accanto a quello musicale britannico degli 80s, con il passaggio dai concerti ai video musicali, e il fenomeno massmediatico delle nuove popstar, come i Duran Duran, i Depeche Mode, etc. Sing Street non è soltanto divertentissimo e tenero, ma anche interessante dal punto di vista del significato che la musica ricopre nel film: uno strumento di costruzione della propria identità e del proprio io in un’età complicatissima come l’adolescenza. È anche uno sprone a credere sempre al proprio sogno, e ad avere il coraggio di inseguirlo: Connor e Raphina sognano entrambi Londra, la terra promessa a una manciata di km di mare dall’Irlanda. E la storia si conclude con una scena magari un po’ poco verosimile e romance ma di grande impatto metaforico, con il fratello di Connor, che aveva rinunciato al proprio sogno di cantare, e che aiuta i due sedicenni a realizzare il proprio, imbarcandoli fisicamente verso la loro nuova avventura…