PERSONAL SHOPPER DI OLIVER ASSAYAS — ABITO, ERGO COGITO

IL FRULLATO – IL LATO DELLA FRU a cura di Sara Fruner from NYC

A New York non c’è che l’imbarazzo della scelta. In tutto, figuratevi in ambito sale cinematografiche. Una che va per la maggiore, fra i newyorkesi che amano il cinema con determinate caratteristiche — made-in-Europe, indipendenza, qualità, controcorrenza — è senz’altro l’IFC Center. La sala sorge nel cuore del Greenwich Village, a un isolato dal Washington Square Park, e a pochi metri dal famoso Blue Note Jazz Club — basta attraversare la 6th Avenue e imboccare la 3rd Street West e ci siete. Io immagino sempre che alcuni spettatori, a fine film, guardino le loro donne negli occhi con sguardo Dick Tracy e propongano di proseguire la serata tra jazz e swing, di là della strada. ‘Cause night is still young, you know, baby… 

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All’IFC Center sono stata a vedere Personal Shopper di Oliver Assayas, che di fatto presenta l’identikit del film da IFC Center. Europeo, indipendente, di qualità e controcorrente. Il titolo potrebbe trarre in inganno, tuttavia. Non ha nulla a che vedere con l’I Love Shopping di una Kinsella, o filmetti in cui una qualche Paris Hilton potrebbe recitare, facendo spola fra Rodeo Drive e Via Monte Napoleone. Personal Shopper racconta la vita un po’ sui generis di Maureen, ventottenne americana che vive a Parigi e di mestiere fa l’assistente personale/tuttofare di Kyra, top super model che sembra essere tutto il contrario di quello che Maureen crede di essere. Kyra superficiale, vanitosa, artefatta, sofisticata, quanto lei seria, con velleità artistiche, sobria ai limiti dell’ascetismo — jeans, maglietta unisex, maglioncini da flea-market. Maureen è pure una medium, e questo certo le complica non poco la vita. Ha la capacità di comunicare con i morti, e nella vita, oltre a rimbalzare da una boutique all’altra tra Milano e Londra e rifare il guardaroba di Kyra, aspetta. Che cosa? Un segnale da parte del fratello gemello morto a causa di una malformazione cardiaca da cui è affetta pure lei. E le arrivano, dei segnali… Ma da presenze — vive? Vere? Morte? — che la perseguitano via cellulare.

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Il film si trasforma, a questo punto in un thriller dall’esito abbastanza prevedibile.

Fossi stata Assayas, avrei lasciato perdere tutta la deriva paranormale e mi sarei concentrata sulla vita di questa ragazza che cerca di trovare la propria identità. Il confronto con l’altro — altrissimo — da sé, rappresentato da Kyra, la porta a interrogarsi sulla propria femminilità. Disprezza davvero la “vacuità” della top model, oppure, in qualche modo, vorrebbe essere (come) lei?

La questione non è poi così lontana dai dilemmi che noi stessi ci poniamo guardando chi conduce vite diametralmente opposte alle nostre. E il film sfiora anche un punto cruciale della vita della protagonista — così come della nostra. Il desiderio. Cosa ci spinge sempre verso ciò che non abbiamo? Il desiderio, insieme a Dio, è il più grande burattinaio a cui l’uomo-burattino è chiamato a sottostare.  
“Non c’è desiderio senza il proibito”, ragiona a un certo punto, Maureen. Questo vale per lei, che muore dalla voglia d’infilare gli abiti mozzafiato della sua datrice di lavoro, e vale per noi, che molto spesso siamo attratti da ciò che diciamo di detestare. Il meccanismo psicologico per cui neghiamo ciò che vogliamo affonda le radici in una consuetudine autoprotettiva. Esplicitando un desiderio ci esponiamo anche alla possibilità di non conquistare l’oggetto desiderato. Molto meglio risparmiarsi un fallimento attraverso la negazione preventiva che rischiare di mancare l’obbiettivo.

Il lavoro del personal shopper, che potrebbe erroneamente suscitare associazioni al mondo del futile, del superficiale, è molto legato alla sfera del desiderio e del desiderio negato. Io scelgo i vestiti altrui: devo farlo utilizzando il mio gusto, ma desiderando ciò che fa piacere al (il) cliente, non (a) me. Devo fare in modo di esserci, pur rimanendo invisibile.

E poi c’è anche la componente di dissimulazione identitaria che emerge. Se io sono personal shopper di qualcuno e quel qualcuno diventa famoso grazie ai look strepitosi che io gli propongo, chi merita la fama, io o il cliente? La scena in cui Maureen vede le foto in cui Kyra è ritratta con gli outfit scelti da lei, e si stizzisce, è ben rappresentativa di questo conflitto. Conflitto interiore che troverà la sua massima espressione nel momento in cui la ragazza indosserà vestiti e biancheria intima di Kyra e dormirà nel suo letto, quasi volesse, per un giorno e una notte, scivolare fuori da se stessa e infilarsi nel suo opposto.

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Gli abiti che fanno tanta gola a Maureen sono stati scelti ad arte dal Costume Designer Juergen Doering e dipingono due volti opposti della femminilità. Da un lato, un knee dress by Chanel con profondo slit sul petto, tutto fatto d’inserti glitter-mirror che richiama una donna raffinata, femminile, un angelo moderno — l’effetto è fra l’avveniristico e gli anni ’30, come un vero abito dovrebbe essere: passato e futuro materializzati in un momento presente. Dall’altra un look da virago firmato Vionnet: bustino a fasce nere con geometrie fetish velato da un abito-sottoveste di organza nera che lascia ben poco all’immaginazione e scatena la fantasia erotica, non solo dello spettatore, ma anche della stessa Maureen. La ragazza, provando questi abiti visibilmente seducenti, prova ad abitare il mondo del desiderio che si nega nella vita di tutti i giorni attraverso un look asessuato non-connotato che cancella la sua femminilità. Personal Shopper, in questo senso, è un esempio di come un vestito sia ben più di un vestito, ma inneschi delle riflessioni sulla propria identità e sul proprio intimo personale che incidono sul percorso compiuto dal personaggio durante il film.

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Personal Shopper poggia praticamente tutto sulle spalle di Kristen Stewart, che passa buona parte del tempo a digitare messaggi via Whatsapp, evocare il fratello trapassato e a difendersi da ectoplasmi impazziti. Eppure la sua interpretazione è sempre credibile, dall’inizio alla fine, a riprova che la bravura può mettere una pezza laddove la sceneggiatura vacilla. La Stewart rappresenta il presente e il futuro della recitazione made-in-USA al femminile, insieme alle colleghe Emma Stone, Jennifer Lawrence e le sorelle Dakota ed Elle Fanning (Elle soprattutto): la generazione successiva alle Natalie Portman, Scarlett Johansson e Kirsten Dunst, star senior che non rimpiangeremo, visto l’indubbio talento di queste junior.

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