a cura di Alessandro Martinelli
“Vestire è un po’ partire”. WALTER ALBINI, l”Übermensch” (dimenticato) della Moda Italiana.
Ripercorriamo la carriera di Walter Albini, dandy volubile e pieno di contraddizioni, visionario in anticipo con i tempi. prototipo dello stilista superstar, è il primo a capire l’importanza della griffe e del nome dello stilista sull’etichetta con cui accomuna prodotti diversi, ma anche dell’identificazione tra nome, immagine, logo grafico e volto. Albini indossa la sua moda e posa con le celebrità nelle sue campagne pubblicitarie, anticipando un’intera generazione di designer italiani e non . È “superuomo” amato e osannato dalla visione estetica totale (cura i disegni degli abiti , lo styling della sfilata, l’illustrazione pubblicitaria e la grafica tessile), che non conosce limiti fisici (lavora a decine di collezioni) ma anche economici, che porteranno lui e molte imprese al fallimento.
Gualtiero (Walter) Albini nasce il 3 Marzo 1941 e risiede a Busto Arsizio con la famiglia: il padre, prematuramente scomparso, la madre e i fratelli. Nutre fin dalla tenera età una passione smisurata per il disegno di abiti femminili tanto che abbandona gli studi classici a sedici anni per iscriversi all’Istituto statale d’arte per il disegno di moda “Italo Cremona” di Torino, unico ragazzo in una scuola totalmente dominata dalle donne. Siamo negli anni Cinquanta, dove la moda italiana si divide ancora tra bassa produzione industriale per le masse e l’alta moda per pochi ricchi.
Fra i suoi primi lavori quello di illustratore per la rivista “Mamme e bimbi”, diretta da Silvana Bernasconi, con la quale collabora anche per il “Corriere Lombardo” e “Vanità”. Walter, su suggerimento di Gigliola Curiel, si reca a Parigi tra il 1961 e il 1964 per perfezionare la sua tecnica e lavorare per l’agenzia di stilismo di Maimè Arnodin e Denise Fayolle, per la quale realizza maquette per tessuti; è allora che rimane folgorato dall’ormai anziana Coco Chanel: la sua eleganza senza tempo diventerà sempre un punto di riferimento costante nella sua moda. Il rientro in patria è legato al magico e fortuito incontro oltralpe con Mariuccia Mandelli, per la quale cura fino al 1968 la linea Krizia Maglia, nell’ultima stagione a fianco di un Karl Lagerfeld agli esordi. Albini avvia numerose esperienze di collaborazione e consulenza con aziende e boutique attente al pubblico giovane.: nel 1963 crea la sua prima collezione per Gianni Baldini e, contemporaneamente, già a partire dalla metà degli anni Sessanta, collabora con un numero cospicuo di negozi e aziende di confezioni come Billy Ballo, Cadette, Trell, Montedoro, Princess Luciana, Paola Signorini, Uama Sport, Cole of California, Annaspina, Glans, Callaghan.
Il suo rapido successo si sviluppa grazie all’ineccepibile sistema di progettazione in grado di fornire tutti gli elementi utili alla costruzione di un look totale e la piena conoscenza delle esigenze del consumatore, offrendo stili diversi tra i quali scegliere. Nel 1970, disegna per la nuova boutique Misterfox di Milano del giovane industriale veneto Luciano Papini, immaginando abiti per donne mature a prezzi contenuti.
Lo stilista, progressivamente, diventa anello di congiunzione tra le esigenze della produzione industriale e quelle dei consumatori, lavorando contemporaneamente per più aziende e proponendo per ognuna uno stile differente e destinato ad altrettanto differenti scelte di mercato. L’accordo attuale con Papini esclude però la pubblicizzazione del nome dello stilista in etichetta, cosa che limita la continuità dell’immagine . Il suo interesse riguarda anche il design tessile per la moda e l’arredamento (soprattutto con Etro, per la produzione dei suoi celeberrimi tessuti stampati) e partecipa a manifestazioni quali “Ideacomo”, “Comofoulard” e a quelle relative al Centro Tutela Lino.Nel ’69 Albini partecipa con Alberto Lattuada, Miguel Cruz e Karl Lagerfeld alla manifestazione Idea Como, promossa dall’Associazione Italiana Fabbricanti Serici, con lo scopo di presentare, finalmente con unità di stile e colori, la produzione tessile per l’estate 1970. Nello stesso anno Albini propone per Montedoro la formula uni-max, uniformità di taglio e colore per uomo e donna. A Pitti Donna, nel 1970, riscuote un discreto successo di stampa la sua collezione “Anagrafe per Misterfox”, memorabile grazie alle otto spose in rosa e alle otto vedove in nero, abiti basati sulle sovrapposizioni di tuniche in materiali e lunghezze diverse, decorati con perline e ispirati agli anni Venti: questo, purtroppo, non basta a garantire il successo finanziario (dovuto alla scarsa visibilità delle collezioni di Pitti Donna) e la collezione rimane pressoché invenduta.
Sempre per Misterfox, la stagione successiva, disegna una collezione Preraffaellita”, presentata a Maremoda Capri, dalla linea romantica e dai colori pastello, con abiti ampi e copricostume alla caviglia che lasciano scoperte le spalle, e una collezione denominata “Rendez-vous”, presentata a Pitti, con tessuti stampati e molti ricami pop e dove vengono accostate lunghezze diverse e gli strati sovrapposti terminano a punta ( i gioielli e le borse sono del giovane Ferré). Capri e Firenze, dove Albini sfila con creazioni destinate e etichette diversa fino al 1965, sono allora le capitali del gusto nonché le mete turistiche internazionali, ma Albini lamenta la necessità di dare un taglio unitario alla collezione, resa impossibile a causa della mancanza di coordinamento tra la filiera tessile e la produzione di abbigliamento, ma anche la formulazione troppo rigida di presentazione, organizzata secondo un numero preciso di capi da far sfilare davanti al pubblico.
Nella primavera del 1971 un gruppo di creatori di moda tra cui Ken Scott, Albini e Cadette, a cui si uniranno Caumont, Krizia e Missoni decidono di presentare le proprie collezioni a Milano al Circolo del Giardino, sancendo così la nascita del prêt–à–porter italiano.
In un’unica sfilata, Albini presenta le collezioni di cinque case di moda ( Basile per i capispalla e i pantaloni, Escargots per la maglieria, Callaghan per il jersey, Misterfox per gli abiti , Diamant’s per la camiceria, sostituita poi da Sportfox), etichettate sia con il nome del produttore che con quello dello stilista, per cui ha disegnato capi totalmente coordinati dal mattino alla sera, creando i primi esempi di “total look”: le collezioni vengono prodotte e distribuite dalla FTM di Ferrante, Tosetti e Monti, azienda all’avanguardia nella sperimentazione di una nuova gestione dell’industria tessile anche attraverso la gestione diretta delle aziende impegnato nella produzione di moda. Lo stilista diviene così figura da proporre come modello e la sua crescente notorietà supera di gran lunga quello delle industrie per le quali collabora.
Compaiono più capi in passerella e il designer introduce per primo la musica al posto dello speaker, dove stile e immagine si muovono di pari passo. La collezione A/I 1971-72, è un grandissimo successo, un trionfo di stampa e compratori. Unità di stile, diverso rapporto con i tessutai ma soprattutto la consapevolezza che l’Alta Moda, così come era intesa negli anni ’50, è ormai destinata a scomparire per lasciare spazio a nuovi modelli produttivi, in particolare alla necessità di una diversa concezione dei rapporti tra progettazione e produzione. Milano infatti non è solo vicina alle industrie tessili, ma anche alle fabbriche di macchine e utensili. Il nuovo sistema di progettazione della moda richiede infatti anche il ripensamento e la reinvenzione dei macchinari atti a produrla. Con la collezione A/I 1971-72 Albini inventa anche un nuovo modo di fare pubblicità, solo con i disegni, affermando il concetto di “groupages” sulle riviste specializzate. Sono i fornitori che pagano le pagine, non le case di moda o lo stilista.
Sempre nello stesso anno, al Circolo del Giardino, presenta la collezione successiva, la P/E 1972, conosciuta come “Le Bandierine” o “Le Marinarette”, dove modelli e modelle indossano cappellini da marinaio e i richiami marinareschi sono molteplici. I colori dominanti sono il nero, il bianco, il rosso, il blu e il giallo, con punte di azzurro dedicato al mare della Tunisia. Stampe a bandierine sia per la camiceria che per gli abiti, maglieria a righe colorate, ruches ovunque. Alcuni pantaloni sono indossati senza top, mentre ai piedi espadrillas da uomo e da donna.
Il progetto è andato avanti per altre due stagioni e la collezione autunno/inverno 1972-1973, ispirata a Marlene Dietrich e con numerose citazioni a Chanel e Schiaparelli, rimane una pietra miliare del Made-in Italy: la stampa internazionale definisce Albini “forte come Saint Laurent”. La press release si apre con la frase “L’alta moda è morta, viva l’alta moda”: duecento capi ricchi e lussuosi, estremamente variegati, con colli di volpe, pied-de-poule, velluto o lamé. La complessità della collezione rende problematica la distribuzione, alcuni capi non entrano in produzione e dopo alcuni diverbi, il sodalizio con FTM finisce.
Con la primavera-estate 1973, nasce la prima linea “Walter Albini”, la grafica della cui etichetta WA si ispira alla Wiener Werkstätte: essa viene prodotta e distribuita da Papini, per il quale continua a disegnare Misterfox (che diventa una seconda linea) fino al 1974. Con l’aiuto di Mrs. Joan Burnstein, proprietaria di Browns, fa sfilare a Londra presso il Blakes Hotel, 6 abiti da uomo e 27 da donna e battezza questa collezione con il titolo di Grande Gatsby, il romanzo di uno dei suoi eroi, Scott Fitzgerald. La sfilata è l’occasione per creare quella giacca destrutturata, la giacca-camicia, che sarà così importante nel futuro di tutta la moda italiana: avvolge le modelle in nuvole di chiffons e merletto meccanico a stampa floreale di Etro, mentre per l’uomo tanto blu e bianco. È la prima volta che viene adottata la formula, poi molto imitata, di una prima linea di immagine forte e trainante, di vendita ristretta, economicamente sostenuta da una seconda collezione più facile, per il grande numero . Nel 1973 apre il suo showroom in via Pietro Cossa, dove fa sfilare la collezione di Misterfox: abiti dalla linea dritta, decorati a motivo klimtiano ottenuto tramite il contrasto di inserti di raso su crepe, e trattenuti da cinture gioiello in raso e strass.
Prende casa a Venezia, dove ambienta, al caffè Florian, una memorabile sfilata per la collezione WA, A/I 1973-74, in cui i modelli portano i nomi di dogi e dogesse e sono accompagnati da un’orchestrina di Piazza San Marco he suona walzer e tango. La sfilata si apre con sei spose, poi una carrellata di modelle dal caschetto nero e gardenia nei capelli (gli uomini la portano all’occhiello) e perle. La casa veneziana, sul Canal Grande, a due passi dal museo Peggy Guggenheim, viene definita da Isa Vercelloni “lo zoo incantato di Walter Albini”: perline di vetro di Murano e tre pareti tutte uguali come il pavimento e il soffitto. Nel mezzo dell’atrio una pantera nera in marmo, al di là della tenda una sala da pranzo completamente riviste di un mosaico di specchi. Ritornava costantemente il tema delle murrine, stampata su carte e oggetti oppure sui tessuti dei cuscini. “Con entusiasmo non scevro di autoironia, ha curato personalmente l’arredo di questa sua casa veneziana, disegnando alcuni pezzi, intervenendo su altri, verniciando d’oro rose e leoni e persino la tappezzeria, collezionando piante artificiali (le palme sono di plastica) e belve di ceramica per uno zoo incantato e volutamente scenografico, dove anche il marmo è di plastica e i tappeti orientali sono stampati su cotone” (Casa Vogue, Luglio-Agosto 1973).
Nel frattempo, nasce il personaggio “Walter Albini”, acclamato dalla stampa per la sua eleganza d’altri tempi ispirata a Chanel e a Poiret, spesso paragonato a Karl Lagerfeld per il suo lato eclettico e istrionico. Le sue case, quella di Venezia e quella di Sidi-Bou-Said (antico borgo arabo andaluso non lontano da Tunisi), opulenti e decadenti, definiscono ancor più la sua aura e diventano lo sfondo naturale per mostri servizi fotografici.
In un’intervista di quegli anni, afferma:
“Mi piace il periodo che va dal 1925 al 1935 perché credo sia stato il decennio in cui tutti gli aspetti dell’esistenza umana sono stati rivoluzionati.. Basta pensate al taglio di capelli da maschietta, alle gonne che si sono accorciate e all’eliminazione dei corsetti. O a Francis Scott Fitzgerald e a Zelda, alle prime Garbo e Dietrich, al Bauhaus e all’art déco. Il cambiamento nella musica, nella danza, nella pittura, nell’architettura e negli stili di vita sono stati epocali e diffusi a tal punto che ancora oggi viviamo degli esiti di quelle esperienze”.
A causa della mancanza di un vero sostegno organizzativo e commerciale, il 1974 e il 1975 sono anni di crisi, anche se le creazioni di quegli anni denotano una raffinatezza unica, fatta di esotismi nei tessuti stampati “paisley” che proviene da spunti dei suoi numerosi viaggi in Oriente, India soprattutto. La collezione P/E 1974, presentata a Roma al Salone Margherita, richiama i primi anni Quaranta: qua fa capolino per la prima volta il famoso tessuto “Murrine” assieme a sete dai borsi stampati “paisley” e con sfondi a pois regolari.
Anche se il menswear è entrato nell’estetica di Albini già alla fine degli anni Sessanta con Uama Sport e Montedoro, è nel 1974, al salone Pierlombardo, che crea una collezione interamente maschile; parallelamente, nasce l’effimero progetto ( di solo un anno) dell’alta moda. Nel gennaio e luglio 1975, presso i Vivai del Sud di Roma, presenta fuori calendario rispettivamente la sua collezione Primavera-estate e Autunno-Inverno, realizzate entrambe dalla sartoria Dogle Faré e in collaborazione con Giuseppe della Schiava, che realizza sete stampate su disegni di Albini. Propone il concetto di abito di atelier da vendere in “teletta”.
La collezione PE 1975 è ispirata a Chanel e agli anni 30, la collezione successiva, che omaggia Paul Poiret, è un tripudio di rosa ( “una rosa d’autunno smorzato nel grigio o incupito da certi bruni rossori”, come la definisce Isa Vercelloni), sottolineata dalla colonna sonora, che prevede decine di versioni diverse de “La Vie en rose”.
Dal 1975 al 1976 collabora con Trell e lo stile “hollywoodiano” dei primi anni Settanta viene progressivamente sostituto da una nuova predilezione per il suo interesse si sposta verso le avanguardie russe e ricrea l’uniforme operaia partendo da Rodchenko e dai disegni di Sonia Delaunay. Posa all’uscita di una fabbrica, indossando il passamontagna dei movimenti estremisti degli anni di piombo, una variante stilizzata dell’eschimo e i pantaloni infilati dentro gli stivaletti, moderni precursori degli anfibi “grunge” (collezione “Guerriglia Urbana per Trell” A/I 1976-1977). Negli anni dell’hippy chic , Albini si fa fotografare come un moderno Siddharta, seduto nella posizione del loto in cima a una montagna di abiti colorati, in tessuti etnici, righe, iktat, fiori per la collezione “Indiana” per Trell (P/E 1977). In un altro scatto cammina in un tunnel di abiti dai colori indiani che volano e lo circondano.
L’interesse si concentra sulla ricerca della semplicità, realizzando capi drappeggiati senza taglio né cucitura, che permettano a chi li indossa di interpretarli in modo sempre diverso. La collezione è presentata in un happening senza uscite predefinite, con colonna sonora di Daniela Morera. L’amore per il folk tipico di quegli anni (si pensi alla collezione “Ballets Russes” di YSL) contagia la collezione P/E 1978 per Trell, dove ogni modello è dedicato a una donna della moda, con echi tunisini, serbi, messicani e richiami Fortuny. Gli abiti vengono modellati sul corpo per mezzo di nodi da drappeggiare tramite coulisse, che hanno pochissime cuciture e si portano spesso sovrapposti.
Isa Vercelloni e Flavio Lucchini attribuiscono ad Albini “la capacità di sognare, l’abilità di dar corpo o una parvenza di realtà al suo mondo di sogni. E possiede persino la rara qualità di farlo senza rovinarli. Questa è la ragione per cui le donne amano così tanto i suoi vestiti. Esse riconoscono immediatamente che si dà potere all’immaginazione”.
A causa delle difficoltà economiche relative all’abbandono dell’atelier di Via Cossa, vende le sue case per trasferirsi in un appartamento high-tech milanese in Piazza Borromeo: una colata di grigio inonda tutto lo spazio, scarno e disadorno, sui muri e sui pavimenti di resina. Armadi metallici e sedie di alluminio, lampade rubate ad alcuni piccole fabbriche della Brianza, numerosi ritratti del padrone di casa, vero narciso.
“Maestro dell’artificiale naturale”, come lo definisce Anna Piaggi, nella seconda metà degli anni Settanta realizza una serie di eventi che sperimentano nuovi modi di comunicare la moda e il brand: nel marzo 1975, presenta al ristorante Angolo di Milano la sua collezione invernale, utilizzando come modelli amici e amiche ribadendo il carattere unisex dei suoi capi e facendo loro interpretare personaggi tratti dalla storia del melodramma. Guido Cegani, suo fotografo di fiducia, è ad esempio Figaro; Edy Vincenzini, unica donna e modella professionista, indossa abiti da uomo e impersona il doppio dello stilista. Walter Albini assume il ruolo del duca di Mantova.
Nell’ottobre 1975, nel nuovo ristorante di Fiorucci, utilizza come modelli busti-ritratto beige o neri; nel marzo 1976, si fa ritrarre da dodici amici fotografi come unico modello in “Vestire è un po’ partire”. Le immagini non documentano l’abito, creano un “mood”, una visione, una lettura del viaggio: i pannelli, realizzati da Albini per associare a ogni disegno della collezione un fotografo, con Polaroid che completano l’outfit, diventano la superficie su cui costruire i personaggi da interpretare per trasformare ogni capo in una idea di viaggio. Nell’ottobre 1976. presso la Galleria Anselmino, presenta la sua “non collezione”, collage di “robes trouvées”composti con capi originali di Basile, Armani, Fiorucci, Krizia, Missoni, Miyake, ecc…, coronati dal calco del suo viso.
A proposito, Albini afferma: “A me interessa dare delle indicazioni di metodo, sia disegnando che usando le cose altrui, come ho fatto qui. Bisogna imparare la libertà di vestirsi fuori da ogni schema. Il consumismo produce oggetti , non stili. Io mi guardo attorno, scelgo, combino e propongo”.
Nel marzo 1977, presso la Galleria Eros, organizza una mostra di falli che simboleggiano personaggi famosi. Dopo aver rotto i contatti con Trell, si riapre un breve sodalizio con la FTM per la produzione della collezione Walter Albini autunno-inverno 1978-1979, che durerà fino all’estate del 1980. Presentata al Museo della Parmanente, la collezione, dal taglio ricercato e dagli elementi folk di ispirazione balcanica e orientale, è un grande successo, come quella successiva, alla Rotonda della Besana. Dopo la sfilata per l’A/I 1979/80, il rapporto si interruppe bruscamente.
Contemporaneamente, firma un accordo con Lanerossi che non avrà esiti positivi e darà luogo a una causa che si protrarrà anche dopo la sua morte. L’accordo prevede il potenziamento della Walter Albini e la creazione di Arlanda, seconda linea, con la quale sfila presso Pitti Nuove Firme con le collezioni primavera-estate 1980 e autunno-inverno 1980/81. Dal marzo 1979, aderisce al Modit e successivamente comincia una collaborazione con la filatura Lane Grawitz: nuove linee di maglieria vengono presentate a Pitti Filati fino alla morte dello stilista.
Negli anni Ottanta, la stampa è poco interessata nei suoi confronti e, pertanto si dedica ad altri progetti: l’illustrazione di un libro di poesie di Raffaele Carrieri nel 1980 e la creazione di costume per una piéce del 1984 di Ronconi. Ricomincia la collaborazione con ditte esterne come Pep Rose, che gli commissiona due diverse linee, Vevera e Pep Rose Over, e la Hamilton, seconda linea di Cadette. Si appropria degli stereotipi della cultura camp dei primi anni Ottanta e si fa fotografare con t-shirt con i segni zodiacali e maschere veneziane, assieme alla modella Isa Stoppi.
La sua salute peggiora rapidamente e, ricoverato presso la clinica “La Madonnina” di Milano, muore il 31 Maggio 1983 . In una delle ultime interviste, descrive la donna che vorrebbe vestire : è l’immagine di quella donna coprotagonista con l’uomo che Albini disegna e che anticipa l’eleganza post-moderna degli anni ’80 di un’intera generazione di stilisti, in primis Giorgio Armani.
“Ho appena fatto la descrizione della donna che vorrei vestire… trenta, trentacinque anni in su… magra ma con ossatura solida. Spalle dritte e larghe. Busto lungo, fianchi stretti, poco seno. Testa piccola, capelli di media lunghezza tendenti al corto. Non eccessivamente sportiva, ma con l’aspetto di chi pratica sport. Ambigua, durissima e forte almeno d’aspetto. Fuma molto, viaggia, non è necessariamente sposata. Lavora, ma sembra perennemente in vacanza. Ha stile, elegante, misteriosa, sola, adattabile ma non coinvolgibile. Non necessariamente bella, ma sicuramente irresistibile”.
L’alfabeto “Walter Albini”
A come “Anni 30”
B come “bermuda”
C come “Coco Chanel”, ma anche come “Costruttivismo russo”
D come “dandy”.
E come “Etro”, con il quale ha collaborato per la creazione di numerosi tessuti stampati per l’arredamento e l’abbigliamento.
F come “Fashion show” e tutte le novità apportate alla presentazione, dal volume alto della musica, dall’uso di location inusuali, dalla visione della sfilata come rappresentazione.
G come ”groupages”o come “Guerriglia urbana”
H come “happening”, o presentazione tipica della seconda metà degli anni Settanta.
K come “Krizia”
I come “Italiano”.
L come “Liberty”
M come “Milano” e come “Misterfox”
N come “Nascita del prêt-à-porter italiano”
O come “Oriente” e le mille suggestioni dei suoi viaggi.
P come “passamontagna” ma anche come “Paul Poiret”
Q come “quadri”, ossia stampati geometrici, “pied-de poule”, “principe di Galles, ecc…
R come revival, espressione di una forma intelligente di ricerca e reinvenzione.
S come sessualità e sensualità.
T come total look, dalla testa ai piedi tutto coordinato.
U come “unisex”
V come “Venezia”, sede della celebre sfilata al Café Florian.
W come “Wiener Werkstätte”
Z come “Zeitgeist”, uomo capace di respirare l’aria del tempo e di precorrerla.