a cura di Alessandro Martinelli
Tutti conoscono il genio di Karl Lagerfeld, che ha saputo rivitalizzare in più di trent’anni la maison Chanel e rendere contemporaneo il concetto di pelliccia da Fendi a partire dagli anni Sessanta: con questo articolo invece ripercorriamo la sua storia in una delle maison storiche di Francia, Chloé, che ha da poco festeggiato il sessantacinquesimo anno di vita.
La nascita della Maison Chloé
La maison Chloé nasce nel 1952, l’anno di punta di Monsieur Dior, che domina la moda con le sue silhouettes strutturate e i tessuti sovrapposti che creano volumi importanti. Gaby Aghion, parigina di origine egiziana, collezionista di arte futurista e tribale e amica di Pablo Picasso e Lawrence Durrell, volle proporre un’alternativa a una visione dell’abito elegantemente rigida e costrittiva. Fondò la sua casa di moda assieme al suo socio Jacques Lenoir, battezzandola Chloé, nome di una cara amica che evoca l’idea di una giovane donna libera e moderna. La moda della Parigi del dopoguerra era divisa tra la perfezione della haute couture e le donne comuni vestite con mediocri copie dell’alta sartoria. Entrambi i creatori furono tra i primi a essere consapevoli dell’esigenza di nuove collezioni che combinassero la facilità del prêt-à-porter con la qualità dell’haute-couture. Gaby decise di creare una linea di abbigliamento disponibile immediatamente, realizzata con tessuti pregiati di ottima qualità, quello che poi sarà definito “il prêt-à-porter di lusso”.
La prima collezione fu presentata nel 1956 al Café de Flore, luogo di ritrovo di artisti molto conosciuto a Parigi, riscuotendo un così tale successo da rendere la maison un punto di riferimento dello stile degli anni Sessanta francese, apprezzato da numerose celebrities quali Brigitte Bardot, Grace Kelly, Jackie Kennedy.
Gaby e Karl
Il primo incontro tra Aghion e Karl risale al 1964: in un primo colloquio, il teutonico stilista le mostrò varie creazioni corredate da vivaci guanti gialli, riuscendo a dare un total look ai suoi vestiti. Pur temendo che il suo gusto fosse troppo barocco, supportata da Lenoir, diede inizio a questa collaborazione. All’inizio Lagerfeld lavorava al fianco di altri designers freelance (termine allora in voga per distinguerli dai couturiers) che collaboravano alla progettazione di due collezioni l’anno: Tan Giudicelli, Michèle Rosier e Graziella Fontana. Gradualmente, il suo ruolo assunse sempre più importanza e gli altri designers pian piano se ne andarono. Gaby insegnò a Karl, proveniente da un periodo di apprendistato da Pierre Balmain e da Jean Patou, che la moda poteva essere più leggera, più veloce, senza troppi frou-frou, semplificando e addolcendo la sua linea e selezionando la sua abbondante produzione di bozzetti.
Il primo riconoscimento da parte dello stampa risale al 1965, quando il primo credit “Karl Lagerfeld pour Chloé” apparve su Vogue Paris: al tempo realizzò il celebre abito “Tertulia” per la Primavera.estate 1966, dipinto a mano con motivi ispirati all’Art-Nouveau, suggerendo la propensione della maison per uno chic bohémien.
Nel 1969, appena giunti da New York e chiamati dalla rivista Elle, bussarono alla porta della maison Antonio Lopez e Juan Ramos. Antonio era un illustratore di moda, Juan il suo direttore artistico. Antonio aveva un paio di baffi neri, scarpe cubane, un orecchino d’oro e un kohl sugli occhi ed era ossessionato dalla bellezza e dalla perfezione. Antonio chiamò al rapporto Donna Jordan, una ragazza bionda e magrissima che aveva lasciato Newyork per conquistare il mondo delle modelle.
Gli americani portarono con sé una nuova cultura della moda che era sostenuta dalle influenze visive dell’arte contemporanea americana,in particolar modo la mentalità pop di Andy Warhol, diversa da qualsiasi nozione parigina di eleganza impostata da Balenciaga o Dior. Era il loro approccio che annunciava il futuro: una fusione incurante di strada, cinema, arte, ironia, musica e individuo. La moda non era più una questione di silhouettes ma di attitudine. C’era un desiderio sempre più crescente per un nuovo romanticismo, per vestiti con un’anima estremamente femminili, che si esprimeva attraverso fantasie dal gusto retrò come reazione al modernismo ascetico della space-age di Cardin e Courreges.
L’incontro nel 1970 con Andy Warhol fu di fondamentale importanza per la sua carriera: il ruolo di comparsa nel film “L’amour “ gli diede la possibilità di analizzare da vicino il primo piano di Warhol, la sua capacità di manipolare l’immagine, la realtà e la gente. Un anno dopo, di ritorno da un viaggio in Giappone per Chloé, Karl acquistò un ventaglio, che divenne un simbolo del suo stile per i successivi trent’anni, oggetto di difesa e feticcio inseparabile. Antonio Lopez stilizzava le linee dei vestiti Chloé mentre Karl li realizzava, andando oltre la realtà dei disegni e suggerendo sempre a Lagerfeld un percorso, portando Karl all’idea successiva.
Nel 1971 fece il debutto in passerella da Chloé Pat Cleveland, dominando la scena con la sua forte sensualità e le risate e introducendo il movimento e la danza in passerella, in un’epoca in cui Parigi era popolata da mannequins anonime che mostravano i vestiti, non loro stesse. Successivamente, fu la volta di Eija, finlandese fotografata da Helmut Newton, dotata di un fascino da eroina hitchcockiana. Il modo formale e misterioso di Eija, che di giorno e notte indossava abiti anni Cinquanta con graziosi cappellini appoggiati sulla testa, fondotinta pallido con tocchi di fard e ombretto nero, ispirò un’intera collezione di Karl. L’amicizia con Antonio e Juan fece intraprendere a Karl un percorso creativo di costante rinnovamento, sapendo cogliere una nuova tendenza, esplorarla, disegnarla e dopo poco rimuoverla spietatamente dal suo sistema intellettuale per passare a quella successiva.
Fu in quel periodo che cominciò a costruire il suo personaggio e la sua moda basata sul pick-and-mix prendendo spunti oggi dall’Art Decò, domani da Fernand Léger. Il rinato gusto per l’Art-Decò colpì molto l’immaginario estetico di Karl, attratto dallo squisito stile dei mobili di Ruhlmann e Groult, dai bronzi di Brandte dalle superfici laccate di Jean Dunand. Egli aveva una energia infinita, una mente veloce e fotografica e una memoria che nutriva con libri comprati in doppia copia, una da conservare e l’altra usata per separare i riferimenti e archiviare una risorsa visiva futura. Il suo metodo creativo richiedeva un’alimentazione costante e una stimolazione visiva incessante, il suo genio consisteva nell’osservare, assimilare e ricreare, oltre a un consumato senso del tempo nel sapere quando andare avanti.
I temi ispiratori le varie collezioni erano inconsueti per il tempo: anziché nominare ciascuna collezione nel modo tradizionale, venivano usate le lettere dell’alfabeto. Nel 1972, fu usata la lettera “R”con abiti che avevano nomi di artisti quali “Rachmaninoff”, che prende il nome dal celebre compositore russo e realizzato in una stampa bianca e nera che simboleggia un pianoforte, o semplici parole che il designer trovava “inspiring” come “réconciliation”.
La sua collezione per la primavera-estate 1973 presentò in passerella giacche Spencer o in seta stampate, una gonna definita “a sopresa”, plissettata e lunga fino alle caviglie, così larga da nascondere il fatto che in realtà si trattava di pantaloni, e abiti in stile Carmen Miranda, molto corti e corredati di reggiseno a vista o lunghi corredati di “bra” e scialli. Karl divenne unico designer di Chloé a partire dal 1974. Le prime collezioni, che attrassero subito l’attenzione di una ricca clientela di ricche hippies e radical-chic, erano caratterizzate da abiti morbidi e decostruiti, relizzati con tessuti splendidi ma svuotate di rigide strutture interne come nella tradizione Haute-Couture, leggeri, aerei, facili da indossare. Ricorrente, allora, era l’uso del “punto zig-zag” sulla piega degli orli e sui bordi del capo (che ritroviamo anche in Sonia Rykiel), o di bordi sfrangiati senza finitura: questa tecnica è stata soprannominata dalle riviste di allora “Original Chloé Finish” o “Designer’s Finish”.
Per l’autunno inverno 1974/1975, un plissé “gioiello”invase gli abiti neri, avvolgenti, foderati di nastri color champagne. Le maniche “lampione”, realizzate con tubi d’organo molto fini, aggiungevano morbidezza e, nella sfocatura delle crêpes marocchine, creavano nonchalance. Un lungo mantello di lana nera si apriva in una corolla su una gonna di cashmere a pieghe. Per il tardo pomeriggio e cocktail, Lagerfeld proponeva abiti in crepe double-face e a contrasto. Aerei come sciarpe, senza impedimenti e senza cuciture, gli abiti combinavano colori luminosi e asciutti; le maniche a pagoda o kimono, le pieghe a fisarmonica e i volants sostituivano sui tessuti uniti i motivi Art decò.
“I 200 modelli di tendenza di Karl Lagerfeld rappresentano per le forme decostruite quello che Balenciaga rappresentava per gli abiti costruiti… Annoda la materia insieme, lascia che la donna crei la forma con un abito-sciarpa. Il più grande accessorio è una sciarpa, che diventa girocollo, cintura, fascia per le caviglie” scriveva entusiasta il WWD, che dedicò alla collezione estiva del 1975 la prima pagina. Proseguì superlativo il decano dell’Herald Tribune, Hebe Dorsey: “Il più grande talento di Lagerfeld risiede nel suo approccio non strutturato alla moda che si basa su una profonda comprensione del tessuto. Con un minimo di cuciture, sembra che i suoi vestiti siano stati messi insieme dalla pura magia. A partire dalla scorsa stagione, ha sviluppato un nuovo modo di rifinire i suoi orli, che sono tagliati puliti invece di essere raddoppiati. Non c’è la minima traccia di rivestimento …. Alcuni vestiti non sono altro che un paio di rettangoli, quello anteriore ripiegato sul retro …. di conseguenza, tutto galleggia.” L’essenza dello stile di Chloé diventò la mancanza di struttura dell’abito, il weightless, l’estrema femminilità che parte da un’idea molto semplice di vestiario (una gonna e una camicia) che però nascondeva un’estrema ricercatezza nei dettagli, il tutto declinato in delicati colori pastello tra cui il rosa-orizzonte stemperato dalla luce.
Agli inizi del 1975 Chloé e Karl Lagerfeld firmarono un proficuo accordo di profumi con Elizabeth Arden negli Stati Uniti per creare la prima fragranza Chloé. È stato un momento cruciale per Karl perché con questo contratto, con il profilo dei media e con il denaro che ha generato, per la prima volta nella sua carriera, è andato oltre il ruolo assunto in Chloé per ricevere parte della quota di profitto. Aghion e Lenoir scelsero di non dargli partecipazioni nell’allora compagnia di Chloé, ma invece formarono una nuova società con Karl chiamata Karl Lagerfeld Productions: ciò significava che la quota di profitto di Karl era su tutto tranne il prêt-à-porter di Chloé. Il profumo “Chloé” fu lanciato ad Aprile con un tour in America che includeva feste e sfilate di moda, conferenze stampa e apparizioni in negozio. Fu intervistato per la prima volta da André Leon Talley, allora giornalista di “Interview”con un articolo dal titolo “Karl Lagerfeld in a cloud of Chloé”, dove si discuteva dell’ultima collezione e dell’influenza nella moda di Isadora Duncan. Fu uno dei primissimi riscontri a livello internazionale, al di là dei confini parigini.
Abbandonato lo spirito decò, la sua attenzione si concentrò sul diciannovesimo secolo, prendendo ispirazione dalla campagna e non dai costumi nobiliari, e creò gonne pantaloni sopra “panniers” nascosti e abiti di seta dipinti a mano ispirati alle porcellane di Meissen. Nella moda di quegli anni, ebbe grande influenza Anna Piaggi: per Karl, collezionava abiti haute couture vintage, antichi jodhpurs presi al Chelsea Market, bloomers edwardiani da lei tinti di nero, una cappa di tela che era stato un costume nella prima de “L’uccello di fuoco” di Stravinsky.
Per la collezione primavera-estate 1977, ritroviamo plissé di ogni tipo, dal soleil al comète, jet d’eau, éventail e jeu de cartes, declinato in effetti di movimento con due gonne sovrapposte, maniche a lampione o smontabili dall’abito, sciarpe che si stringono in un modo e poi si allargano a coda di cometa, sciarpe anello chiamate “lasso”, infilate in vari modi.
L’abito sottoveste è realizzato in crêpe romain in un colore definito da Karl “bois lavé”, il bain de soleil è color ciliega, accompagnato da minigonna e sciarpe cometa, il gilet-astuccio è legato al collo a motivi bianchi-neri., l’abito con maniche lampione è in crêpe de Chine con maniche con effetto di bordi e di pois neri. Il look è accompagnato da espadrillas per mostrare che le donne amano “s’habiller pour rester chez sòi”. “La collezione è come un bel giardino”-affermò Beatrix Miller, direttrice di Vogue UK-”non si sa che fiore scegliere”. Di solito le sue sfilate si svolgevano il Lunedì alle 9 di mattina e la collezione era sempre pronta in largo anticipo, mai in ritardo.
Il suo modo di lavoro fu espresso chiaramente nel 1979 nel documentario televisivo “Top Ten Designers in Paris: “non è più molto moderno parlare di silhouette: quello che conta è il mood, lo spirito, l’atmosfera. Le spalle sono ancora larghe, la vita non è più così sottile come la stagione scorsa e le gonne sono più corte, ma queste affermazioni mi ricordano quelle antiche conversazioni di moda degli anni ’50 Il messaggio viene costruito a partire dagli accessori e da tutte le differenti cose che aggiungo. Infatti, gli abiti sono abbastanza semplici, easy da indossare.”
Per il tempo questo fu un concetto abbastanza radicale: in poche parole, Karl riassunse la direzione che la moda avrebbe intrapreso nei decenni a venire: quando si osservano principalmente le collezioni dal 1979 in poi, sono gli accessori stravaganti e le stampe accattivanti. che emergono su capi componibili e facili da indossare.
Cinture fatte di bolle di plastica avvolte attorno a costumi da bagno o che spuntano dalla testa come fosse schiuma di detersivo, cappelli a forma di disco-volante abbinate a brillanti gonne disco di crêpe de Chine, un pappagallo vivo su una spalla, ventagli di seta: questi alcuni dei dettagli più spiritosi visti in passerella. La sfilata diventava pertanto un luogo emozionante, accompagnata dalle note dei brani disco-funky del momento, come “Love to love baby” di Donna Summer.
La passione di Anna Piaggi di indossare lingerie vintage e preziosa durante il giorno divenne fonte di ispirazione per l’utilizzo del merletto nel daywear. La sua moda era piacevole, facilmente indossabile, caratterizzata da una femminilità fresca, un modo di vestire etereo, caratterizzato da abiti romantici fino ai piedi di chiffon.
Fu il primo a far indossare in passerella scarpe da tennis, che per allora rappresentarono una vera rivoluzione, abbinate a bustier di piqué di cottone bianco sotto un completo, giacche, cappotti e abiti baby-doll senza orli.
André Leon Talley nel 1978 sintetizzò i suoi principali traguardi nel mondo di Chloé: le sovrapposizioni del 1969, gli abiti da sera decostruiti del 1972, gli orli non terminati del 1974 e un ritorno al pizzo su tulle di cotone nel 1977. Nonostante tutte queste invenzioni, non inventò uno stile univoco: le sue creazioni erano in linea con lo spirito del tempo, filosofia che è tutt’ora valida per Fendi o Chanel.
“Il mio stile è più: Another Spring, Another Love,” ha detto nel 1979, riferendosi alla canzone di Dietrich e al suo stile decorativo, anche se avrebbe potuto facilmente descrivere il suo approccio alla moda. Karl si rifiutò categoricamente di sostenere qualsiasi nostalgia; l’unica cosa che accettava come costante del suo stile era il nuovo, il prossimo. “Quello che è importante è ciò che farò, non ciò che ho fatto in passato.”
Alla fine degli anni ’70, il cambiamento si realizzò con il passaggio a una silhouette più aderente, costruita, soprannominata “retrò” perché in parte reminescenza degli anni ’50. “L’abito sciolto e stratificato è divenuto semplicemente disordinato” affermò in una intervista. Ha cercato di mantenere il comfort e la facilità nel vestire degli abiti anche in quelli strutturati attraverso la scelta sapiente degli abiti e la loro realizzazione. Il suo bustier senza spalline non è stato un remake o una copia letterale di quelli realizzati negli anni ’50 ma ha una forma spumeggiante che dona al corpo un facile movimento, senza compressione del punto vita.
La silhouette della Primavera/Estate 1979 è assai modellata, estremamente femminile con fianco enfatizzato da baschine ondulate o persino imbottite di gommapiuma) si staglia con la nitidezza delle ombre cinesi. La sua linea netta si ispira al maestro della Bauhaus Oskar Schlemmer. Ad aumentare lo slancio della silhouette , le gonne si arrestano alla fine del ginocchio; in alto un cappello-disco di paglia nera, ai piedi , ai piedi tacchi alti a cono.
Nella sua ricerca di una costruzione nitida, di una silhouette sempre più grafica, KK (il “Kaiser Karl” come venne soprannominato) riscopre a pieno la geometria in modo antitetico allo stile asessuato degli anni ’60. Gli abiti della collezione Autunno /Inverno 1979/80 , torniti e levigati, dotati di maniche bombées “à croissant” sono una apoteosi della morfologia femminile. L’aspetto di birilli fantastici o pezzi di uno stravagante gioco di scacchi è accentuato dai capelli, costruiti sulla base del cerchio.
Con il cambio storico di gusto e estetica che ha dominato i primi anni ’80, che hanno visto l’ascesa di Claude Montana e Thierry Mugler, Karl Lagerfeld ha saputo sempre tenersi a passo con i tempi, a differenza di molte star degli anni ’70 che stavano svanendo. Oramai il prêt-à-porter era riconosciuto come la forza che dominava la moda, sia in termini di trend-making che di profitto, e Karl Lagerfeld era considerato come un membro di lunga durata del settore, ancora in grado di spirgionare energia.
La primavera/estate 1980 è uno sguardo smaliziato agli anni’60 , dettato da un desiderio di non prendere nulla sul serio, tanto meno la riconquistata purezza delle linee. In un’ottica anti-Courréges, la sua moda è dinamica, attraversata da righe di tutte le fogge. Gli accessori sono cappelli a biplano, tacchi a trottola, veline di plastica iridescente usate per impacchettare gonfie pettinature “à la Pompadour” in versione stilizzata, la bolla di plastica posata un po’ ovunque in sostituzione dei gioielli e persino il Crysler Building di New York trasformato in abito nero con ricami di vetro. Le gonne sono dritte e animate a mezza via da una volant, geniale compromesso tra lo stretto e il largo. KK usa il volant, da lui rinominato “cerchio mobile” per allungare le gonne a piacere: con due volants arrivano al polpaccio, con tre alla caviglia; i colori si ispirano ai “toni iridati di un tramonto sulle pareti di un grattacielo di vetro” o alla freschezza dei sorbetti gelato.
Il gioco delle proporzioni è continuato per la Primavera/estate 1981, dove KK propone diverse interpretazioni del corto, dall’abito a palloncino al bermuda alla doppia gonna con orli in scala; la linea è geometrica, esaltata di mille dettagli. Interessante il dettaglio del fulmine ricamato che spezza il rigore della seta.
Il 15 Dicembre 1982, dopo mesi di gossip e smentite, arrivò l’annuncio ufficiale che Karl avrebbe assunto di designer da Chanel. All’inizio la casa di moda descrisse il suo ruolo in termini eufemistici: avrebbe dovuto fornire un “orientamento artistico” per l’haute couture, a partire dalla collezione Primavera/Estate 1983. Karl negò ripetutamente di avere a che fare con la collezione ready-to-wear, ma le smentite risultarono vacue, dato che Philippe Guilbourgé, designer di Chanel dal 1977, non aveva rinnovato il contratto dalla primavera del 1982; al suo posto venne posto l’ex assistente di Karl, Hervé Léger, che molti speculavano lavorasse in realtà alle sue dipendenze, eludendo segretamente il contratto di esclusività con Chloé.
Il gioco di contrasti proseguì nella collezione Autunno /inverno 1983/84, dove all’interno di un singolo abito si contrappongono due tecniche: il costruito e il decostruito, come a voler contrapporre la futilità alla severità, la frivolezza al rigore.
La linea curva, i materiali sono flessibili, le scarpe larghe e spigolose donano una nitidezza geometrica ai capi., l’imboccatura della manica a “sella da corsa” accentua i movimenti rendendo leggeri anche i materiali più corposi; per togliere pesantezza, i colli e i risvolti si prolungano fino all’orlo oltre la vita. I looks da giorno erano allungati e dall’allure sporty-chic, in mélanges e sfumature di grigi, marroni e neri realizzati in mohair scintillanti, tweed “sale e pepe”, cheviotte a coste, velluti di lana leggeri come fiocchi di neve, crepe di lana “granulé caviar” e ottoman di lana a stampato “disintegrato o molecolare”.
La sera invece, con i celebri abiti con ricami a cascata d’acqua, rappresenta un momento di seduzione, eleganza e spensieratezza, dominata da colori vivi e giocosi come il rosso fiamma, la grafite luminosa e la perla iridescente.
Nel 1983 Karl decise di divorziare definitivamente da Chloé: i motivi addotti per la sua partenza variano a seconda della parte intervistata. Il designer descrisse “un clima non più creativo”, mentre i proprietari Aghione Lenoir sostenevano la riluttanza a sostenere le alte tasse francesi del governo Mitterand. A Lagerfeld fu comunque riconosciuto il ruolo di aver saputo sviluppare il brand, creando una varietà di look sempre corredati da sontuosi e spiritosi accessori. L’ultima collezione (primavera/estate 1984) è un omaggio alla sartoria, ispirazione evidente dal divertente uso di braccialetti di filo spinato, puntaspilli ingioiellati, ditali combinati con perle e forbici che impreziosiscono ogni dettaglio, dalle cinture ai manici dell’ombrello. Il tema è sviluppato in modo surrealista con effetti “trompe l’oeil”, come due forbici di un celeberrimo abito da sera che sembrano tagliarlo in due.
Memorabile l’abito “Crètoise” indossato da Ines de La Fressange, basato su “elementi mitologici della storia greca e italiana” e realizzato con perline che disegnano drappeggi di stoffa a pieghe, accessoriati con una corona di foglie d’alloro dorate. La silhouette prevalente è lunga e snella, irriverente nell’abbinamento tra abiti da sera e scarpe da ginnastica e occhiali da sole, fluida nella reintroduzione della chemise, e rende omaggio all’essenza dello stile francese, ben realizzato e volto ad esaltare la figura femminile.
Il look è una fusione di stili diversi: cenni all’abbigliamento maschile, orecchini presi in prestito dal tema della sartoria, palette black& white che suggerisce una ispirazione smoking, giustapposizioni tra long e short, slim e wide, pantaloni stretti alle caviglie e indossati con degli scarponcini.
Quello che nel 1983 sembrò un addio, fu solo un arrivederci: nel 1992 tornò a dirigere l’ufficio stile della maison. Del suo nuovo contratto, al tempo disse:
“ Ho una visione per questo, non è come cominciare un nuovo business”
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