IL FRULLATO – IL LATO DELLA FRU a cura di Sara Fruner
L’estate non è la stagione del cinema. E mi riferisco alla programmazione. Quanto a iniziative, l’estate è, invece, la stagione del cinema. Pensate a “Sotto le Stelle del Cinema”, ovvero le 55 sere che la Cineteca di Bologna dedica al cinema trasformando Piazza Maggiore in una sala cinematografica con il cielo a far da tetto, le stelle da sentinelle. Pensate a tutte le città italiane e moltiplicatele per occasioni come queste. Quindi no, non sono i contesti a far difetto. Sono i film in uscita. Una sfilza di action movies, di fantasy di dubbio gusto o imbarazzanti commedie rosa: la versione 2.0 del panem et circenses dato in pasto al popolo nell’Avanti Cristo. Tuttavia, fra tutta questa paccottiglia cinematografica, spunta lo sfavillio di qualche gemma autentica che non bisogna assolutamente perdere. Lady Macbeth di William Oldroyd è una di queste.
Lady Macbeth è un film sulle conseguenze dell’amore mancato — vanamente cercato, idealizzato, perseguito e infine schiacciato. È un film su cosa voleva dire essere nate 200 anni fa, e sui 200 grazie che una spettatrice moderna rivolge agli astri nel corso del film per averla fatta nascere alla fine del ‘900, salvandola dall’inferno ottocentesco in cui le uniche vie di fuga che una donna aveva erano la prostituzione, i voti e la follia.
Lady Macbeth riprende e splendidamente evolve uno dei personaggi meglio riusciti dell’opera di Shakespeare. Ma c’è molto altro. Nella Lady Macbeth di Oldroyd c’è Madame Bovary, Anna Karenina, Wanda von Dunajev (Venere in pelliccia), Lady Chatterly. Donne della letteratura che hanno vissuto la narcosi della noia, il fiato sul collo dell’ah-se-potessi e dell’insoddisfazione, ovvero quello che Flaubert così meravigliosamente tradusse in atteggiamento esistenziale plasmando Emma Bovary e il suo “bovarismo”. Catherine, la protagonista del film, è un prisma nero nel quale riverberano le anime di queste donne della letteratura che hanno raccontato, nel corso dei secoli, quanto la condizione femminile soggiogata al potere patriarcale fosse destinata a sfociare nell’(auto)distruttivo, nel perverso, nel delirante.
Campagna inglese di fine ‘800.
Il film si apre su un primo piano della protagonista: Catherine, il velo da sposa calato sul viso come un sudario. È appena diciottenne ed è stata letteralmente venduta alla famiglia del proprio sposo in cambio di un pezzo di terra. Le sue giornate trascorrono nella repressione e nella noia. Il suocero, un cerbero di dickensiana memoria, la obbliga a lunghe veglie per adempiere ai suoi doveri coniugali con il figlio, ai quali il marito — non lei! — non è in grado di adempiere. Le è proibito uscire di casa, parlare, ridere, persino dormire in pace.
Le premesse sono fondamentali per comprendere la china che Catherine percorrerà. E infatti il regista William Oldroyd — trent’anni d’età, opera prima — indugia molto sulla parte del prologo. I lunghi silenzi nelle stanze austere della casa immersa nella brughiera, la noia palpabile che stilla minuti pesanti come il piombo — Flaubert, in Madame Bovary parlava di “noia scodellata nel piatto”, per far capire quanto l’esistenza di Emma al fianco del contadinotto Charles Bovary fosse un supplizio quotidiano.
E così come Lady Chatterly trovava nel cacciatore Mellors la sua via di fuga dalla claustrofobia domestica, ed Emma Bovary in Leon, Anna Karenina in Vronsky, Catherine la trova in Sebastian, lo stalliere di casa. Una passione travolgente che li travolge, e che porterà Catherine a superare il limite… Non una volta. Due, Tre.
Senza fare troppo spoilering, diciamo che suocero, marito e un figlioccio spuntato dal nulla intralciano la sua via di fuga, e Catherine fa piazza pulita senza mostrare l’ombra di un pentimento o di un rimorso.
Ecco cosa distingue Catherine dalla Lady Macbeth shakespeariana: se la moglie di Macbeth cade vittima del proprio senso di colpa, comincia a sfregarsi le mani convulsamente nel tentativo di lavar via il sangue degli innocenti morti a causa sua, Catherine non fa una piega. È una stratega spietata che, all’occorrenza sa diventare una perfetta improvvisatrice, cambiare piano in un blitz, accusare “l’amore della sua vita”, costringerlo praticamente alla forca, e salvare se stessa. Quella di Oldroyd — del romanziere russo Leskov prima di lui, al cui romanzo Lady Macbeth del distretto di Mcensk il film s’ispira — è una Lady Macbeth portata all’ennesima potenza, una sua discendente geneticamente modificata. RoboCop, se siete per i paragoni robotici.
Ma come fa a piacerci un personaggio del genere?, si potrebbe obiettare.
Be’, è ovvio che tutti noi si condanna la violenza, gli omicidi, gli infanticidi, la mancanza di pietas e l’esubero di hybris — Catherine, per certi aspetti, è una figura nietzschiano-wagneriana per la carica dionisiaca che la spinge verso l’appagamento delle proprie pulsioni sotterranee. Ma noi non siamo interessati all’ovvio. E nemmeno il regista. Ci troviamo davanti a un personaggio che, nella sua folle lucidità, è coerente fino alla fine.
Seconda possibile obiezione. Perché una donna così spicca fra le tante banali eroine-donnette di cui il cinema, specie italiano, è pieno? Perché è tutto quello che una donna non poteva essere. Spavalda e sfacciata, ghiottissima di piaceri della carne, ardita fino al punto di macchiarsi le mani di tre delitti pur di realizzare il suo sogno di libertà. E alla fine l’amore che lei dice di provare per Sebastian, in realtà, non è amore. È fare ciò che lei ha voglia di fare, in una parola, libertà: in questo caso, la versione perversa della libertà.
E non dimentichiamo che Sebastian la tradisce: troppo debole e meschino, lui, per vivere con il senso di colpa di tre morti sul groppone. Cede e spiffera tutto. Lei, che invece sì, pur di realizzare l’idea del loro sogno d’amore, è disposta a tacere e mentire e sporcarsi la coscienza, lei non accetta un simile comportamento. Lei agisce, non subisce. Lo spettatore non è chiamato a giudicare i misfatti di Catherine, ma a studiarne le cause e osservarne gli esiti. Per questo Lady Macbeth si guadagna tutta quanta la mia stima: pur proponendomi la figura di una donna che tende alla libertà e all’indipendenza — un’eroina, diremo — è un racconto di deformazione nel quale il soggetto decresce, scrive da solo la propria fine.
Non ci è dato sapere come sarà la sua vita. Possiamo supporlo. Di certo sarà in nome dell’immobilità. La stessa che opprimeva Catherine all’inizio del film, chiude il film, rinserrandola visivamente nell’immagine fissa che il regista adotta nella prima parte per trasmettere la costrizione e la stasi che caratterizzavano la sua vita pre-Sebastian. Quando nella sua vita entra l’azione, ovvero l’amore, la passione, la violenza, emozioni che Catherine vive al parossismo — date da mangiare a un affamato e si strafogherà fino a star male — la sua vita si muove, e con essa la cinepresa del regista, attraverso riprese con macchina a mano. Dopo i tre delitti, il destino della sua vita ripiomba nell’inazione, il peggior destino che possa capitarle, la punizione più grande.
Credo sia uno dei finali— terribilmente hanekiano, terribilmente bergmaniano! — migliori degli ultimi anni.
Fermo immagine su Catherine, impassibile. E poi buio. Bam.
A proposito delle immagini. Lady Macbeth è un piccolo spettacolo formale, rigoroso e asciutto come la vita monacale che dovrebbe vivere la protagonista. Il regista infila un tableau vivant dietro l’altro, una natura morta dietro l’altra, ricorrendo, molto furbescamente a tinte e consistenze cromatiche che rimandano alla pittura fiamminga — magnifico il blu di Prussia del vestito di Catherine, il giallo senape dei divani, il noce scuro del mobilio — restituendoci l’idea di una vita artefatta, congelata in una rappresentazione e non vissuta veramente. Catherine vive una vita immobilizzata dentro una natura morta. Ve l’immaginate abitare una tela come “I coniugi Arnolfini” senza un briciolo di vita, di amore?
In tutto questo, Oldroyd sforna scene di una violenza fisica e psicologica a livelli kubrickiani. Domestiche trattate come animali, catturate, derise e molestate non solo dal gruppo di braccianti che lavorano nella tenuta, ma anche da Catherine stessa, che condurrà la povera Anna alla follia — e presumibilmente alla forca. Per non parlare del trattamento di cui è oggetto Catherine — “oggetto” non a caso — prima che scatti la ribellione.
L’‘800 è stato un secondo Medioevo per la donna. Si ha quest’idea romantica della fanciulla che vive fra gli agi delle famiglie benestanti, in grandi magioni, servite e riverite. In realtà vivevano da recluse in gabbia. La gabbia poteva essere d’oro zecchino, ma era una gabbia a tutti gli effetti, fisica e psichica. L’‘800 è il secolo della depressione, dell’“isteria”: così si definivano i crolli nervosi femminili.
Oldroyd ci mostra un personaggio che reagisce a un destino da in-ferma. I modi che Catherine adotta sono quelli che ha introiettato subendo un’esistenza ai limiti dell’animalità — togliete la parola a qualcuno e di lui farete un animale. Le sue scelte la portano nella direzione opposta alla vera libertà, le offrono invece una libertà effimera e, infine, artefatta tanto quanto quella in cui aveva vissuto prima. Ma questo è il suo percorso: e se non altro ha avuto, anzi si è presa, una chance.
Al giovane regista, il merito di aver guardato dentro l’esistenza di una donna, aver raccontato la discesa agli inferi che la sua coscienza compie, restituendoci un film magnificamente disturbante, gotico, che lusinga l’horror ma non è un horror, così come non è propriamente un thriller o noir, pur ruotando in mondi oscuri, e ci regala il ritratto di una donna che, per quanto mi riguarda, finisce nella galleria dei personaggi femminili a cui guardo con profondo affetto cinematografico, tra cui ovviamente spiccano la tarantiniana Black Mamba, la Annie Wilkes di Misery che non deve assolutamente morire, Harley Quinn di Suicide Squad, Cat Woman in Batman, Maleficient (un’Angelina Jolie inarrivabile), Glenn Close in Attrazione fatale (la matta per amore), Vanda di Venere in pelliccia di Polanski… E poi, be’, speriamo non finiscano qui…
Se il caldo non vi dà tregua, trovate refrigerio in una sala che proietti questa piccola operazione di rigore cinematografico dal cuore incandescente.