IL FRULLATO – IL LATO DELLA FRU a cura di Sara Fruner
Ogni festival del cinema porta con sé le sue gioie e i suoi dolori: la 73° Mostra del Cinema di Venezia non ha fatto eccezione.
Abbiamo già dedicato un Frullato a Mister Tom Ford e al suo capolavoro “Nocturnal Animals”. Ma c’è stato dell’altro che ci ha fatto sollevare la V di vittoria. E c’è stato dell’altro che ci ha fatto contare i minuti, agognando la fuga dalla Sala.
“Brimstone”, del belga Martin Koolhoven, appartiene alla prima categoria.
Ambientato nel Far and Wild West americano, e suddiviso in capitoli da Vecchio Testamento ― Apocalisse, Esodo, Genesi, Castigo ― il film racconta di Liz, giovane perseguitata da un padre molto più che padrone: un predicatore di origini olandesi che non le ha perdonato di essergli sfuggita dalle mani di molestatore, picchiatore, e tutto quello che di brutto possa venirvi in mente.
Cosa succede quando la parola di Dio viene manipolata da una bocca ignobile? E quando un uomo si crede “come Dio”? “Brimstone” ci pone queste domande attraverso la figura del villain più villain che sia mai stato scritto negli ultimi anni. E proprio attraverso questo personaggio il film guarda al passato e parla di presente rinviando alla drammatica realtà dell’integralismo religioso con cui dobbiamo relazionarci anche oggi.
“Brimstone” non è per stomachi delicati. È molto violento, sia in alcune scene da mattatoio, sia nelle situazioni storicamente documentate che evoca. Vedere una donna con una museruola di ferro che le impedisce di parlare, o sentire le frustrate che schioccano sulla schiena di una bambina, sono frammenti dell’orrore a cui non vorresti mai pensare. E uno degli obbiettivi del regista è proprio quello di mostrare cosa patirono le donne in quelle società maschiocentriche e fondamentaliste come quelle dei puritani duri-e-puri sbarcati dall’Olanda nel Nuovo Mondo, agli albori dell’immigrazione dal vecchio continente. A molti il film non è piaciuto proprio per questa crudezza, a tratti, verosimilmente gratuita. Ma è costruito talmente bene e vi tiene con il fiato così sospeso per 142 minuti che gli posso perdonare anche delle sporcature nella verosimiglianza, e qualche moncherino o budello di troppo.
Un altro film che ha fatto sgranare gli occhi a pubblico e critica è stato “Orecchie” ― di Alessandro Aronadio, che si è anche meritato il Premio ARCA CinemaGiovani per il Miglior Film Italiano. Buffissimo, apparentemente surreale, ma in verità, realissimo, racconta la giornata di “uno come noi” ― laureato in filosofia, insegnante precario, perseguitato dalla sensazione di essere sempre fuori posto ― che una mattina si sveglia con un fastidioso fischio nelle orecchie…
Il film è la riprova che è possibile girare in modalità low-budget ― “love-budget”, l’ha definita il regista in conferenza stampa ― e tirare fuori un vero gioiellino quanto a originalità di sguardo e sceneggiatura. Daniele Parisi, il bravissimo protagonista, si è anche aggiudicato il Premio Nuovalmaie Talent Award come Miglior Attore Emergente. Sentiremo senz’altro parlare di lui.
E veniamo agli shock subìti ― ogni Mostra, i suoi mostri.
“Le Beaux Jours d’Aranjeux”, l’ultimo di Wim Wenders, mi ha spinto fuori dalla sala prima della fine. Il che corrisponde a una mia sconfitta, non necessariamente del film. Ma vedete, un uomo e una donna in giardino, che parlano come un libro stampato dei rispettivi passati amorosi solo perché sono due personaggi di una pièce teatrale che un drammaturgo sta scrivendo, non sempre sortiscono l’effetto sperato. Ed è davvero triste quando tanti spettatori si alzano e se ne vanno ― tristissimo quando uno di questi spettatori sono io.
Lo stesso fuggi-fuggi è toccato a “Spira Mirabilis” di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, un calvario rumoroso intervallato dallo stillicidio dei minuti che non si decidevano mai a passare.
Definito “una sinfonia visiva, un inno alla parte migliore degli uomini, un omaggio alla ricerca e alla tensione verso l’immortalità”, “Spira Mirabilis” è uno di quei documentari concettualmente spintissimi da cui non esce una goccia di emozione nemmeno se li strizzi, ma che in compenso trasudano ambizione ― presunzione? ― da ogni fotogramma. Gli auguriamo tanta fortuna… All’estero.
E lasciatemi concludere con uno sguardo ai look. Alzo il pollice fiera davanti alla meraviglia Michael Fassbender: per il tappeto rosso osa rinunciare al nero e infilare un blu notte che mette in risalto il suo fascino vissuto, la sua bellezza imperfetta.
Il pollice verso tocca alla fidanzata, Alicia Vikander, e non per invidia, ma perché si è presentata al suo fianco con un vestito glitter-tyroler che sarebbe stato perfetto per una trasferta di Heidi a Beverly Hills. Occasione perduta per Alicia. Con quel corpicino ben proporzionato che si ritrova avrebbe potuto permettersi ben altre mise, e lasciare fiorellini e tagli campestri nell’armadio della nonna…