“PATERSON”: LUOGO UMANO DI POESIA E IRONIA

IL FRULLATO – IL LATO DELLA FRU a cura di Sara Fruner from NYC

Il Sunshine, nell’East Village, è un cine che amo particolarmente perché propone sempre film giusti, popolari ma giusti — non le vette estreme dell’Anthology Film Archive, la cui programmazione è intellegibile a un numero ristretto di eletti. In più, prima del “play”, il Sunshine getta sotto il proprio maxischermo un povero addetto che vi fa la ramanzina sul divieto di filmare con lo smart-phone, pena reclusione a vita in qualche carcere di massima sicurezza: qui sono assai angosciati dal pericolo pirateria. Fate conto che al Regal, cinema truzzo in Times Square, ogni sala è piantonata da due omoni della security il cui compito è quello di osservare che nessuno smart-phone salti fuori da qualche borsa e abbia il coraggio di azzurrare il buio e riprendere il film.

Al Sunshine sono andata a vedere l’ultimo lavoro di Jim Jarmusch, presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, e uscito parallelamente in Italia — quindi se vi sbrigate, riuscite ancora a goderne.

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Paterson vive a Paterson, New Jersey, e guida l’autobus. Già il personaggio che porta lo stesso nome della città in cui vive ci fa drizzare le orecchie — un soggetto, un luogo. Man mano che il film procede capisci che questa sovrapposizione di soggetto e luogo è oltremodo felice: Paterson è una persona apparentemente comune, la cui vita è scandita dalla routine lavorativa: sveglia, colazione, autobus, casa, passeggiata con il cane Marvin, birra al bar e casa. E la cittadina è una cittadina come infinite cittadine degli Stati Uniti. Planimetria urbana a griglia, il take-away cinese, il diner, la chiesa bianca, lo scuolabus giallo. Eppure Paterson non è affatto un tipo comune. È un poeta, senza velleità di sfondare nel mondo dell’editoria. Eppure è un poeta, su questo non ci piove — lo sappiamo perché il film è percorso dai suoi versi, trascritti on-screen e simultaneamente letti in voice-over.

Allo stesso modo, Paterson la città, è un comunissimo paese del dodgy Jersey come tanti, ma è anche un luogo speciale, che ha dato i natali al grande poeta William Carlos Williams, o dal quale sono passati nomi del ‘900 quali Iggy Pop, Allen Ginsberg, Lou Costello e persino Gaetano Bresci — l’assassino del Re Umberto I di Savoia, casomai qualcuno avesse delle amnesie in storia. Jarmusch, attraverso questa sovrapposizione di ordinarietà e straordinarietà, traccia il profilo filosofico del film: attento spettatore, ci dice, la banalità può essere solo uno schermo dietro il quale si nasconde ben altro. E questo è un discorso che potrebbe essere riferito persino al suo stile registico: attento spettatore, l’apparente “non succede niente in questo film” in realtà nasconde molto altro. Se siete un po’ avvezzi al cinema di Jarmusch, saprete che è stratificato e denso, ricchissimo di citazioni e di rimandi — una vera gioia per i cinéphile a cui si sa, scavare e scavare piace da matti. Tuttavia non propone un cinema saputo — almeno non in “Paterson” — oppure elitista. Se non conosci Petrarca, il regista trova comunque il modo di farti arrivare il nesso che ha portato alla sua citazione — e per uno spettatore italiano, sentir nominare Petrarca o Gaetano Bresci in un film sepolto nel profondo New Jersey, fa un effetto scioccante e gratificante insieme.

“Paterson” non è solo Paterson, ma è anche Laura, sua moglie, una creatura dolcissima, un po’ sognatrice — in senso sia letterale che figurato — un po’ bambina. Quelle anime entusiaste che le provano tutte nella ricerca della propria strada, e che non si scoraggiano, né si fanno remore a passare di passione in passione. La pittura, la musica country, i cupcakes. Nemmeno lei sa quale sia il suo talento, il suo daimon. Ma lo cerca, in continuazione, e nel frattempo crea — casa Paterson è tutt’un accostamento di bianco e nero, fantasia a pois o zebrato: ossessione primaria di Laura. Dal copridivano, alle tende, dal proprio guardaroba, al copripneumatico della macchina (!), tutto è un bicolor bianco nero che avrebbe fatto impazzire di gioia Coco Chanel…

Oltre a questo — e a me, scusate, ma pare già tanto — “Paterson” non parla semplicemente di poesie o di un poeta, ma va a monitorare e a stanare i meccanismi della scrittura in versi, della nascita dell’ispirazione, del rapporto tra parola e immagine. E soprattutto la nascita della meraviglia che può scaturire da uno strano gioco di coincidenze, e che fa del quotidiano la culla dell’inaspettato, dell’arcano. Esempio. All’inizio del film, Laura sogna una coppia di gemelli. E in tutto il film, Paterson non fa altro che incontrare coppie di gemelli!

L’ironia — e quella della ricorrenza gemellare è ironia — soffonde il film dall’inizio alla fine nelle piccole disavventure che costellano la vita di Paterson, come l’odio per il cane Marvin, pupillo di Laura — “Marvin, I hate you”, sussurra a un certo punto Paterson, e Marvin, per vendetta gli divora il suo taccuino di poesie, esempio, questo, d’ironia amara…

E’ raro, rarissimo, trovare un film che riesca a guardare dentro gli ingranaggi della poesia, e al tempo stesso lasci una sensazione di serenità e di benessere, come “Paterson”. L’ho colta sul viso di tutti gli spettatori che uscivano dalla sala del cinema senza la minima voglia di lasciare Paterson — luogo umano di poesia e ironia — per rientrare nella realtà newyorkese di Houston Street.

 

 

 

 

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